Mala tempora currunt

Mala tempora corrunt
o
“Dell’insoddisfazione interessata”.

Sarà che l’inizio del nuovo anno porta con sé anche qualche “proposito” e la voglia di riprendere a scrivere su questa rubrica…
Allora eccomi di nuovo qui, e vorrei proprio iniziare con tre paroline; che siano il proposito per il nuovo anno?
“Me ne frego”, mi ha detto lapidariamente ieri Mister X. Sottinteso: delle esigenze quotidiane della vita comunitaria.
Altri non te lo dicono, ma te lo fanno capire.
In altri tempi, queste tre paroline mi avrebbero innervosito terribilmente. Come rispondere con educazione? Suonano come una provocazione! Potrei dire, sdrammatizzando: “Io ancora di più!”
Il “me ne frego”, o, sua variante“chi se ne frega”, innesca la catena del disinteresse più totale. Apparentemente.
Temo però che non sia così neutro, perché chi lo dice, se dicesse sul serio, non sentirebbe il bisogno irrefrenabile di comunicarlo o manifestarlo in questo modo.
L’indifferenza, talvolta, è necessaria: non si può accogliere con passione e calore tutte le conversazioni, tutti gli argomenti, tutti i film, tutte le lamentele, tutte le osservazioni, tutti i pensieri, tutti gli sfoghi.
Bisogna selezionare, e bisogna pure farlo bene!
Bisogna selezionare per mille motivi: mancanza di tempo, di curiosità, capacità di comprensione limitata, spazio esaurito nel cervello (“fisioram”), non avendo un abbonamento cloud+ a disposizione…
Quindi “fregarsene” di tanto in tanto fa bene. Si tratta di ecologia mentale.

Il paradosso sorge quando il “fregarsene” richiede infinitamente più tempo, più spazio e più energia del disinteresse puro, oppure più forme di autoreclusione, con ciò manifestando inequivocabilmente un forte interesse, ma molto contrariato, non fosse altro che quello di essere lasciati in pace. Ci sarebbero altre espressioni colorite per esprimere lo stesso concetto.
Ma perché reagire in questo modo? Comprendo l’intento offensivo, ma perché scegliere la forma paradossale del disinteresse interessato, piuttosto che usare un’espressione colorita? Piuttosto che parlare apertamente? Questione di sfumature? Di elegante gradazione del linguaggio?
Non mi convince, ovviamente. Qui, la posta in gioco dev’essere più alta: indifferenza millantata, allo scopo di contrariare il prossimo.

Secondo me, ciò che detesta colui che “se ne frega” è di non potersene fregare abbastanza, di non ancora essere in grado di raggiungere quello stato di totale, pura e profonda indifferenza: il vero “grado zen” della liberazione da ogni attaccamento.
Kant, nella sua Critica della facoltà di giudicare, definisce così il bello: “L’oggetto della soddisfazione disinteressata si chiama ‘bello’.”
L’insoddisfazione interessata, al contrario, dev’essere molto brutta!
E io non posso che rispondere:
“Accidenti, mi dispiace!”
Il dramma è tutto qui: chi se ne frega fallisce non riuscendo a fregarsene del tutto, gli altri dispiacendosene.

È chiaro che prima o poi bisognerà uscirne….

Polarità

Intorno al 1942 in Gran Bretagna, Simone Weil, mentre preparava il suo ultimo capolavoro, La prima radice, esaminava documenti, rapporti, bollettini, riviste, bozze di progetti costituzionali su incarico di France Combattante, in un contesto di guerra volto a liberarsi del nazismo e ispirato alle idee del generale de Gaulle. Fu così che mise a fuoco una serie di “bisogni dell’anima” – come lei li chiamava – in coppie di opposti:

  • eguaglianza e gerarchia
  • obbedienza consentita e libertà
  • verità e libertà di espressione
  • solitudine e intimità
  • proprietà personale e collettiva
  • castigo e onore
  • partecipazione disciplinata a un compito condiviso di pubblica utilità e iniziativa personale in questa partecipazione
  • sicurezza e rischio.

La Weil era convinta che “il criterio che consente di riconoscere che in un determinato luogo i bisogni degli esseri umani sono soddisfatti è il fiorire della fraternità, della gioia, della bellezza, della felicità. Là dove vi è ripiegamento su se stessi, tristezza, bruttura, ci sono delle privazioni da guarire.” (Weil S., Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, ed. it. a cura di D.Canciani e M.A.Vito, Lit Edizioni, Roma, 2013, p.32).

Si può oggi anche sostenere che Simone Weil fosse una visionaria idealista, malgrado la sua originaria prospettiva marxista, concretamente ancorata alla fortemente voluta esperienza personale del lavoro in fabbrica, ma è proprio il connubio tra solida formazione politico filosofica e partecipazione pratica alla vita ordinaria, che le permise di fare un’analisi dei bisogni umani molto più approfondita e realistica delle prospettive contemporanee a lei ieri e a noi oggi.

Tra tutte le riflessioni che mi vengono in mente, una risalta al momento a proposito di verità e libertà di espressione.
Oggi è piuttosto comune l’idea che non esista una verità assoluta, nella misura in cui l’esperienza del mondo che abbiamo sembra di tipo “relazionale”, perfino in quei campi della scienza che si fondano sul metodo matematico.

Comunque si valuti una simile posizione, che in fondo è molto più antica di quel che pensiamo, certo è che ci dovrebbe rasserenare: perdiamo qualche vecchia certezza, in favore di un campo di ricerca e di esercizio del pensiero molto più vasto.
Allora – mi chiedo – dove sono veramente gli spazi fisici per la condivisione di un pensiero liberato? Sul web? Sui social? Nelle scuole? Nelle famiglie? Nelle università? Al bar? Negli incontri più o meno online degli “amici”? Nelle dispute saccenti piene di sciocchezze? Tra i soloni che enunciano e scrivono il loro pensiero come se fosse oro faticosamente purificato dall’intelligenza personale? È una colpa l’ignoranza?

Ecco, io credo che abbiamo bisogno di spazi d’incontro aperti, dove le persone possano scambiare idee l’una davanti all’altra in carne ed ossa, dove le persone possano esercitare il loro pensiero, che sia liberato o meno, dove il vitale contraddittorio si sviluppi nel faccia a faccia pubblico, dove ciascuno sia libero di porre domande e ottenere risposte al fine di farsi un’idea propria, senza telecamere, e magari senza giornalisti.
Il pensiero e la cosiddetta intelligenza condivisa sono senz’altro rappresentazione, ma non teatrale e non a pagamento; il pensiero e il dialogo non sono merce. Merce può diventare solo quella prestazione intellettuale finalizzata al profitto di chi la richiede. Allora sì che ha un costo! Ma la qualità? Sarà anch’essa relazionale…o la dobbiamo considerare polo opposto alla quantità e approfondire magari l’idea di cosa sia una relazione e tra chi e chi o tra chi e che cosa o ancora tra che cosa e che cosa?

Sono tutte relazioni tra oggetti esterni e interni della grande rappresentazione che guardiamo ogni giorno appena apriamo gli occhi, spesso senza vedere il sottile e multiforme filo di verità che le attraversa su più livelli.

GL.01.01.Fisica

Rovelli Carlo, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014

Capitolo primo, pp.13-22.

Schemi informativi

(NB: Testo in chiaro e articolazione dei passaggi in punti a cura dall’autore della sintesi)

Esordio
1905: Einstein con tre articoli pubblicati su Annalen Der Physik:

  • mostra che gli atomi esistono davvero;
  • apre la porta alla Meccanica dei Quanti;
  • presenta la prima Teoria della Relatività, oggi chiamata “relatività ristretta”.

Prima questione
La teoria della relatività “non quadra” con le leggi di gravitazione universale, scoperte da Newton.

1915: Einstein risolve questa questione con una nuova teoria della gravità, che chiama “teoria della relatività generale”: [link allo storico articolo di Einstein in lingua originale].
Mentre Newton pensava che l’universo fosse uno scatolone vuoto, dentro il quale gli oggetti corrono diritti, finché la forza di gravità fa curvare la loro traiettoria, Einstein intuisce che lo spazio non è vuoto, è un campo, analogo a quello elettromagnetico (nel quale le onde radio vibrano, andando in giro a portare la forza elettrica). In sintesi, lo spazio è un campo gravitazionale: questa l’idea di fondo della relatività generale. Cambia così – radicalmente – la nostra rappresentazione del mondo di tipo ottocentesco: la terra gira intorno al sole e gli oggetti cadono non perché esista una forza misteriosa che li attragga, ma perché, come palline che rotolano, si muovono dentro uno spazio (il campo gravitazionale), che s’incurva, si flette e si torce come un gigantesco mollusco.

Teoria ed implicazioni
Nella descrizione teorica dell’incurvarsi dello spazio è contenuta l’idea che non è solo lo spazio ad incurvarsi, ma anche il tempo.
Se, per ipotesi, due gemelli vivessero ciascuno la propria esistenza uno in pianura e l’altro in alta montagna e ad un certo punto s’incontrassero, scoprirebbero che quello che ha vissuto in montagna è un po’ più vecchio, perché lassù il tempo scorre più veloce e quindi ne ha vissuto di più: vicino alla superficie terrestre il tempo scorre più lentamente che in alta montagna.

Di seguito alcuni fenomeni, previsti dalla teoria della relatività, poi verificati:

  • Lo spazio intorno alle stelle si curva; per questo motivo non solo i pianeti orbitano intorno alla stella, ma pure la luce subisce una deviazione.
  • Le stelle, quando finiscono il loro combustibile (l’idrogeno), si spengono e crollano sprofondando, schiacciate sotto il loro stesso peso, così forte da curvare lo spazio tutt’intorno. Sono questi i buchi neri.
  • Lo spazio deve muoversi per forza e dilatarsi; la radiazione cosmica di fondo (il bagliore diffuso, rimasto dal calore iniziale di un’esplosione potentissima) deve essere scaturita dall’esplosione dell’universo giovanissimo, piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang.
  • Lo spazio s’increspa come il mare; gli effetti di queste onde gravitazionali si osservano in cielo sulle stelle binarie. [Per un’ulteriore riflessione cfr. Sandri M., “Effetti della danza cosmica spazio-tempo”, in Media INAF, 31/01/2020: “Ancor prima del completamento della relatività generale nel novembre del 1915, Albert Einstein aveva già capito che in una teoria in cui la gravitazione è il risultato dello spazio-tempo curvo, la rotazione di una massa, a differenza della teoria della gravità di Newton, avrebbe contribuito direttamente al campo gravitazionale. Più semplicemente, la rotazione di una massa perturba vorticosamente lo spazio circostante, un effetto comunemente noto come frame-dragging“.

NB: sono graditi commenti e segnalazioni di eventuali errori nelle sintesi.

La promessa della creatività – post 4

Verso una definizione impossibile?

Psicoanalisti e psicologi, studiosi dei processi creativi, hanno costruito molte definizioni di creatività; qui ne riporto un paio per me particolarmente interessanti:
“La creatività artistica crea nuove forme comunicabili, attraverso le quali vengono trasmessi anche nuovi contenuti dell’esperienza. In entrambi i casi devono essere liquidati vecchi stereotipi di pensiero, di forma e di esperienza, per essere riorganizzati in maniera significativamente nuova. La persona creativa dev’essere anche capace di riconoscere la giusta soluzione. Come dicono Jackson e Messik, la soluzione nuova dev’essere ‘tanto in accordo con se stessa, quanto concordemente integrata in un sistema più ampio’. In questo senso una fuga o un quadro possono essere giusti o sbagliati, rispetto alle categorie immanenti cui appartengono, così come potrebbe esserlo un’equazione matematica.” (Müller-Braunschweig, 1978).

Da questa definizione emergono cinque informazioni interessanti riguardo al pensiero dell’autore:

  • La creatività in sé è innanzi tutto una capacità personale in campo artistico.
  • La forma della produzione è comunicabile.
  • Il buon esito del processo creativo è connesso alla capacità personale di liquidare alcuni aspetti del preesistente.
  • Il soggetto creativo ha la capacità d’individuare il nuovo
  • Il soggetto creativo ha la capacità di trovare la soluzione “giusta”
  • Il soggetto creativo integra il nuovo nell’antico in un sistema più ampio.
  • Il prodotto finale potrebbe essere “giusto” o “sbagliato”, in base ad una qualche valutazione, presumibilmente basata sulla verifica (o la falsificazione, avrebbe detto Popper) di altri esperti.

La seconda definizione, diciamo così più aperta, approfondisce il tema con finezza:

“Per creare il mondo, che noi definiamo umano, alcuni individui devono avere il coraggio di liberarsi dai legacci della tradizione. Per prima cosa devono sviluppare metodi per fissare nuove idee o esperienze che offrano un miglioramento rispetto all’esistente. Infine, devono trovare la maniera, per trasmettere il nuovo sapere alla generazione seguente. Consideriamo creative le persone, che prendono parte a questo processo. Essi hanno creato, ciò che noi chiamiamo cultura. Non c’è dubbio che il genere umano non potrebbe sopravvivere né oggi, né in futuro, se la creatività fosse rinnegata.” Queste sono parole di Csikszentmihalyi, lette su un libro che non riesco più a trovare, più o meno nel 1995, se ben ricordo.
La componente del nuovo viene osservata qui da un triplice punto di vista: del contenuto, del metodo e della possibilità di trasmissione transgenerazionale. In altri termini esiste una dimensione di rilevanza culturale e uno statuto identitario collettivo del significato di questa rilevanza. Tecnicamente si suole fare riferimento a questa realtà di fatto, utilizzando i concetti di “campo” e di “dominio”. Non sfuggirà ad alcuno come questi concetti abbiano messo così profondamente le loro radici nel nostro modo di pensare, da richiedere una certa, diciamo così, revisione in forma di massiccio ampliamento dell’orizzonte, ma questo lo vedremo più in là.

Vorrei ricordare che il termine creatività è in sé generico: per essere creativi non è necessario esprimersi nel campo dell’arte; esiste una creatività quotidiana, una certa originale flessibilità in diversi settori della vita, che rappresenta sicuramente un traguardo cui tendere, e che viene considerata oggi indice primario di salute psicofisica. 

Alcuni studiosi di psicoanalisi, per apparentemente logica conseguenza, si sono occupati d’indagare quali siano invece le caratteristiche del “genio”, per saperne di più sulla “normalità”, occupandosi per esempio di Shakespeare, Goethe, Newton, Freud, Einstein e così via.
Lo scopo, immagino e spero, sarà stato quello di distinguere – oggettivandole – le qualità del “genio” da quelle del “creativo di tutti i giorni”, per rendere più efficace l’eventuale cura. In questi casi corre l’obbligo di precisare che i confini tra le due categorie di esseri umani non risultano ben definiti…
Ecco: questi studi sui “grandi”, per quanto ben condotti e affascinanti, a mio parere, sono perfettamente inutili e anche fuorvianti; non è scontato che lo studioso-indagatore abbia tutte le capacità per indagare il “genio”. Potrebbe. Ma non è detto! E forse, se le avesse, farebbe dell’altro…D’altronde sarebbe sciocco pretendere d’indagare l’indagante, a meno di chiudersi in un circolo vizioso e sterile. In fondo anche qui si verifica sempre la stessa condizione a causa della quale i gruppi si scindono in correnti e sottocorrenti, si formano le teorie di Tizio e Caio e ognuno crede di essere più tranquillo e saldo nelle proprie ragioni perché ha trovato il proprio “padre” di riferimento.
Succede ovunque. In tutti i campi. In tutti i domini. In senso lato. Dalle “scuole di psicoanalisi” alle “scuole pianistiche”, dalle “scuole di pensiero” alle “tradizioni artigianali”, dagli “applers” agli “androidiani”, dai “partiti” ai “partitucoli”. C’è sempre qualcuno che, mentre crede di avere più ragione degli altri, sta partecipando al lento e faticoso processo globale di affrancamento dall’ignoranza, ricco di progressi e, purtroppo, anche di regressioni.

I processi creativi sono raramente osservabili, possono essere solo dedotti; ciò che possiamo osservare più frequentemente è il fatto che qualcuno abbia o non abbia la tendenza a produrre qualcosa di nuovo. Molti sono in grado d’intuire la spinta creativa in se stessi e nell’altro, se non propriamente di osservarla. Il bisogno di dare forma al nuovo dev’essere naturalmente presente in ogni essere umano, salvo alcune eccezioni, e deve avere necessariamente a che fare con l’istinto di sopravvivenza. Può rimanere del tutto scollegato dal fatto artistico. Pensateci. Come saremmo arrivati fin qui dall’epoca della clava?

Il prossimo appuntamento di questa rubrica sarà con uno scrittore, che non c’è più, molto famoso, e che ha avuto l’intelligenza e la lungimiranza di lasciarci in prima persona delle chiare informazioni sul realizzarsi graduale del proprio processo di produzione letteraria.

Ora una piccola delucidazione tanto divertente quanto chiara sul termine “campo”, così come viene inteso in psicologia:

Manfred Clemenz

Feld bezeichnet jenen Bereich, in dem mehr oder weniger kompetenten Experten, über die kulturelle Relevanz einer kreativen Leistung entscheiden: einer mathematischen Formel, einer Erfindung, eines Artikels, eines Romans oder eines Bildes. Geht man nicht davon aus, dass das Feld ausschliesslich aus Idioten besteht, aus inkompetenten oder bösartigen Kollegen, Redakteuren, Kuratoren und Kunsthändlern, so bleibt letztlich kein anderes Kriterium für die kulturelle Relevanz personaler Kreativität als das Urteil dieser community (oder eines Teil derselben), so problematisch und vor allem zeitgebundenen dies auch immer sein mag.”

(M. Clemenz, Psychoanalyse und künstlerische Kreativität, in “Psyche. Zeitschrift für Psychoanalyse und ihre Anwendungen”, Klett-Cotta, Stuttgart, 58(2004),446.)

“Il termine campo indica quell’ambito, in cui esperti più o meno competenti decidono sulla rilevanza culturale di una produzione creativa: una formula matematica, un’invenzione, un articolo, un romanzo o un’immagine. Se non si presume che il campo sia composto esclusivamente da idioti, colleghi incompetenti o maligni, editori, curatori e commercianti d’oggetti d’arte, in definitiva non rimane altro criterio per la rilevanza culturale della creatività personale che il giudizio di questa community (o parte di essa ), per quanto questo possa essere problematico e soprattutto limitato nel tempo.”

Caricature

Le caricature non piacciono a tutti. Se riguardano temi religiosi, tra i fedeli piacciono ancor meno. Non voglio entrare nella complessità del dibattito sulle caricature, sugli sberleffi, sulle prese in giro in generale. Le religioni, tutte, offrono spesso il fianco ai carticaturisti.
A proposito! In margine alle diverse performance trasmesse al recente Festival di San Remo 2021, una in particolare ha suscitato commenti anche di prelati che la sanno lunga, e che hanno parlato di esibizione caricaturale e blasfema, per concludere con una ferma presa di distanza, se non con un’esplicita condanna. Non è una novità: stessa cosa era accaduta nel 2020 al povero Benigni con l’interpretazione del Cantico dei Cantici. Sarà una nuova abitudine? Ma no!
Le prese in giro sulle religioni sono frequentissime, non occorre aspettare il Festival di San Remo.

La quaresima è finita; è iniziata la settimana santa e venerdì ci sarà la via crucis, con la morte in croce, e, come nel giorno delle Palme, la lettura di tutta la passione, cioè del cammino che porta alla croce. Fine del piccolo ripasso.

La croce è un fatto fondamentale per i cristiani: il Cristo ha assunto la caricatura che gli è stata fatta, per renderla un luogo paradossale di vittoria. I cristiani hanno preso come insegna della loro fede l’oggetto stesso della derisione inflitta all’uomo: la croce.
La croce è beffarda, annuncia la punizione, il castigo, la bassa estrazione del condannato; porta sarcasticamente in cima il motivo della condanna: “Gesù il Nazareno, re dei Giudei”. La croce indica un luogo in cui si può venire a ridere impunemente: “Salvati”, “Scendi da lì”, canticchiano gli imbecilli di ogni tipo all’indirizzo del crocifisso. La croce è una caricatura; con le sue grandi braccia e la sua gamba troppo lunga, è la parodia del corpo; porta la carcassa pesante e ferita di un uomo che ha dovuto in precedenza, ironia della sorte, trasportare se stesso. Rappresenta tutta la buffoneria omicida che possiamo immaginare: la corona di spine che fa di Gesù un re deriso e perciò derisorio, gli insulti dei soldati che hanno vestito Gesù con un mantello grottesco, le false riverenze accompagnate da percosse, la parodia del processo, le menzogne.
Il pensiero cristiano fin dai primi secoli è andato nella direzione di caricare ancora di più la caricatura per sovvertirla.
La croce che ridicolizza – e che fa vergognare – è chiamata scettro del re, trono del trionfante, sede della giustizia, albero della vita, albero della conoscenza, bandiera della vittoria, trofeo glorioso, unica speranza e tanto altro ancora. La scritta “re dei Giudei”, voluta per sbeffeggiare Gesù, è ripresa nella liturgia come confessione di un credo irreprensibile: è vero! Gesù è il re, figlio di Davide, e la sua croce è il germoglio del tronco di Jesse, padre di Davide, da cui era già stato scritto dovesse nascere il salvatore di Israele.

Caricatura, sadico sarcasmo, umiliazione, derisione: nulla di tutto ciò è evitato, ma tutto è assunto e trasfigurato dall’interno. Per i Romani che ascoltarono i primi cristiani rivendicare la croce di Cristo come un distintivo di vittoria, era una questione indecente. Dicevano (loro) che i propositi dei cristiani erano blasfemi, che i cristiani erano mangiatori di bambini! Avere la sfrontatezza di pretendere che la croce, oggetto di giustizia e umiliazione legale, potesse essere cantata e magnificata come oggetto di venerazione, era folle, impensabile, insopportabile, obbrobrioso.
In sintesi tutta la materia del contendere veniva capovolta: erano i cristiani a passare per impudenti caricature della vita, perché assumevano senza complessi, come “causa di gioia”, ciò che è previsto assolutamente e solo per disonorare.

Il fatto è che, a parer mio, riprendere questa caricatura come emblema di gloria è una ironia profonda, un umorismo teologico che fa tornare indietro la morte. La fede dei cristiani si basa su questa certezza: nulla può diminuire un essere umano. La “carne” per quanto debole, calpestata e disprezzata è IL luogo da cui rinasce la vita più forte di ogni altra cosa.
Quindi i cristiani non hanno paura delle caricature.
Si può fare una caricatura di Cristo?
Ma è già è stato fatto! Ed è stata assunta al punto da diventare l’espressione stessa della fede. La croce, il corpo torturato, le menzioni beffarde della regalità si ripetono nel tempo, si moltiplicano , sono perfino affermate come vere, benvenute. Perché rendono ancora più manifesta l’esatta affermazione di ciò che stiamo dicendo da 2000 anni: il Cristo è il re del popolo santo!
E questo crea tanto risentimento e tanta gelosia … tanto che, nei casi più tristi, chi nutre risentimento verso il divino vorrebbe impossessarsi perfino della sua immagine e della sua rappresentazione per prenderne il posto.

Non pretendo di rispondere a tutto ciò che si può dire sulle caricature di Cristo e della religione cristiana. Voglio solo dire che un cristiano non dovrebbe aver paura di disegni burleschi, di “quadri” o di parole irriverenti.
Cristo è più forte e probabilmente ride dei ridenti e trasfigura gli oltraggiosi per manifestare l’eccesso della sua vita gloriosa.
Ciò non significa che tutto debba essere accettato e applaudito indiscriminatamente, ma aiuta a sviluppare un certo stile, un modo di essere: non gridiamo ad alta voce, non chiediamo sempre di essere protetti da coloro che dicono cose che ci suonano villane!
E, soprattutto, chi siamo noi per giudicare?

Bisognerebbe imparare a vivere anche la derisione, la caricatura e il disprezzo; le parole che vogliono uccidere, disprezzare, prendersi gioco di qualcuno possono diventare occasione di vita.

La promessa della creatività – post 3

Le tre aree della mente

Post n. 3 – 26 luglio 2020

Nel 1958 Michael Balint, cui ho fatto un rapido riferimento nel post n. 2 del 27 giugno, pubblicò un articolo intitolato The Three Areas of the Mind, che confluì nel testo del 1968, The Basic Fault (in italiano Il Difetto Fondamentale).
Le conclusioni elaborate da Balint in The Basic Fault sono interessanti in primo luogo perché indicano l’esistenza di una zona di frontiera difficilmente valicabile nell’uso del linguaggio verbale e ogni persona può incontrarla per motivi assai diversi; in secondo luogo perché queste conclusioni hanno contribuito ad aprire uno spiraglio significativo su cosa sia veramente la dimensione creativa e a quale tipo d’impulso corrisponda.
Come spesso succede, la necessità di curare la sofferenza, sia fisica che psichica, porta a conclusioni utili anche per chi gode di ottima salute.
Innanzi tutto provo a riassumere brevemente le idee fondamentali di questo autore partendo da due premesse necessarie.

  1. Nel discutere alcune problematiche di tecnica analitica, Balint sottolinea che le due concezioni cosiddette “topiche” di Freud, tanto la prima (la strutturazione teorica dei contenuti mentali in inconscio, preconscio e conscio), quanto la seconda (la successiva descrizione teorica della psiche come suddivisa nelle tre istanze dell’Io, dell’Es e del Super-io), non sempre risultano funzionali per affrontare una serie di casi particolari, relativi a persone che hanno vissuto esperienze assai negative in età molto precoce.
  2. I due livelli di riferimento del lavoro analitico individuati dalla teoria psicoanalitica classica, quello dell’elaborazione del conflitto comunemente illustrato utilizzando il mito di Edipo, e quello dell’elaborazione dei contenuti appartenenti ad un’area temporalmente anteriore, detta “pre-edipica”, “pre-genitale” o “pre-verbale”, non sono sufficienti per curare tutti i casi con successo. Questa seconda premessa è quella che maggiormente ci riguarda nell’ambito della nostra indagine sulla creatività.

Per quanto riguarda il primo punto, Balint ipotizza che, se la causa della sofferenza psichica di una persona risale ad esperienze anteriori allo sviluppo della capacità di usare il linguaggio verbale, può darsi che quella persona, anche da adulta, non solo non sia capace di descrivere esattamente a parole il disagio di cui soffre, perché le mancano le parole per descriverlo ora come allora, ma potrebbe non essere in grado di “comprendere” l’interpretazione dell’analista, proprio perché è veicolata dal linguaggio verbale adulto.

Si consideri che i ricordi risalenti alla prima infanzia sono normalmente oscurati, essendo sepolti nei labirinti della memoria; quelli più negativi in particolare, i “traumi”, vengono anche mascherati o addirittura cancellati (“rimossi”) dai cosiddetti “meccanismi di difesa”, strategie quasi automatiche e spesso inconsapevoli, che ciascuno di noi, anche nella vita ordinaria e a livello di normale salute mentale, mette in atto per finalità di adattamento sociale.
I meccanismi di difesa adattivi, infatti, nell’economia generale del sistema psichico, servono per l’appunto a difendersi da qualcosa di poco piacevole si tema possa accadere e che potrebbe creare troppa tensione nella vita di tutti i giorni o mettere in discussione l’idea che ciascuno preferisce conservare di se stesso.

Se il tema della mancata comprensione linguistica tra analista e paziente adulto, così come descritto da Balint, può sembrare strano, occorre ricordare tre “fatti”:

  • che il linguaggio è l’unico strumento a disposizione degli umani per esprimere in maniera chiara e ragionevole ogni cosa li riguardi e per rendere il tutto comunicabile, nonché comprensibile ad altri;
  • che il linguaggio è lo strumento principale della psicoterapia psicoanalitica, il cui obbiettivo è curare la sofferenza psichica attraverso la parola;
  • che la mancata comprensione dei messaggi linguistici tra persone che parlano apparentemente la stessa lingua allo stesso livello di competenza, è esperienza a chiunque nota; quindi è facile rendersi conto dell’impossibilità di un dialogo sufficientemente chiaro tra un analista adulto e un paziente adulto, ma parzialmente regredito all’età di uno o due anni (letteralmente “tornato indietro” in un settore delle proprie abilità).
    Questo può succedere, e può non dipendere da questioni di natura organica o culturale.

Sempre nell’ambito del primo punto citato in premessa, introduco una breve parentesi: il modo che ho scelto per parlare di questi temi su questo blog si avvale di un linguaggio il più possibile chiaro e non specialistico, o almeno è questo il mio intento; trovo che il “gergo”, o, se preferite, “la lingua” adoperata in ogni settore disciplinare, compresi gli anglicismi adottati in tutti i campi, dalle scienze alla politica, dall’informatica all’economia, siano mezzi adatti allo scambio d’informazioni tra specialisti del campo di appartenenza, ma se nessuno compie sistematicamente lo sforzo di rendere comprensibili queste lingue almeno alla media della popolazione interessata, il “gergo” specialistico contribuisce a creare incomprensione e diseguaglianza sociale; può essere usato anche come strumento per attestare il valore e/o la presunta posizione di superiorità e/o potere di chi scrive o parla.

Torniamo a Balint. Secondo quest’autore, la tecnica psicoanalitica, tendente a restituire verbalmente al paziente i contenuti delle sue esperienze preverbali tramite “l’interpretazione” classica, sarebbe inadeguata per rendere comprensibili al paziente i meccanismi e i contenuti attivi nella sua mente, che gli creano proprio la maggior quota di disagio nel presente.
In altri termini la psicoanalisi fallirebbe proprio nei casi in cui sarebbe più urgente funzionasse e, per di più, a causa di una carenza nel metodo.
Il che non sembra una faccenda bellissima e Balint, come Ferenczi, se ne rendeva conto.

Veniamo al secondo dei due punti indicati sopra: secondo Balint il lavoro analitico deve svolgersi su tre livelli e non su due: c’è un livello in più rispetto alla teoria classica, quello della creatività, e il livello cosiddetto pre-edipico assume caratteristiche un po’ diverse; verrà chiamato area del “difetto fondamentale”.
Fa capolino qui piuttosto chiaramente, in uno spazio teorico rilevante, il tema della creatività, il più interessante per la nostra rotta di navigazione interdisciplinare verso una migliore conoscenza della sfera creativa in senso generale.
A ciascuno dei tre livelli l’autore decise di dare il generico nome di “area”, non senza un certo imbarazzo di natura teorica.
Personalmente mi sembra di capire molto bene questo imbarazzo, perché fin troppo spesso la teoria psicoanalitica ha avuto la tendenza ad ipostatizzare i suoi concetti teorici, specialmente sul piano divulgativo.
Sarebbe meglio ricordare sempre che le componenti teoriche sono solo formulazioni modificabili nel tempo, utili al presente per fornire spiegazioni non altrimenti possibili.
Non esiste sostanzialmente alcun Io o Super-io o Es, come non esiste nessuna area edipica nel cervello o in altre parti del corpo. In effetti suona buffo quando si parla del “mio Io”, del “mio Super-io”, del mio “Io-bambino” e altre amenità simili, come si trattasse di personaggi che ci accompagnano in giro per il mondo.
Nel cervello e in tutto il corpo si verificano invece processi di cui normalmente non siamo a conoscenza che in minima parte; la psicoanalisi tende a ridurli e a formularli in maniera funzionale alla cura.

Torniamo alle tre aree di Balint; sono contraddistinte non solo dal ruolo che in esse può esercitare il linguaggio verbale, ma anche dal numero delle componenti produttrici di “rappresentazioni mentali”, gli aggregati di percezioni, immagini, pensieri, intuizioni, emozioni e sensazioni di cui è satura la nostra vita psichica.
L’area edipica è contraddistinta dal numero 3, perché a quel livello la persona è sempre in relazione con altri due “oggetti interni”; tipicamente si tratta della rappresentazione interiore che ciascuno di noi conserva di due persone o almeno di una persona ed un oggetto che risalgono alle prime esperienze avute affacciandosi al mondo.
Nell’area edipica tutto sembra essere governabile attraverso il linguaggio adulto, perché la persona, per quanto a disagio possa essere, è sempre potenzialmente in grado di dire, di ascoltare, di capire, di confrontarsi utilmente nei termini del linguaggio convenzionale.

L’area del “difetto fondamentale” è contraddistinta dal numero 2, perché qui la persona si percepisce sempre in un rapporto a due con un altro.
A questo livello, se viene raggiunto in terapia, si possono trovare le tracce di una mancanza, di una ferita, di un evento, comunque di un qualcosa che nella vita di quella persona è andato purtroppo veramente “storto” in età assai precoce. Si tratta di qualcosa che non può essere in alcun modo ristrutturato attraverso l’esperienza per consentire una risposta più adattiva; è qualcosa che può però cicatrizzarsi attraverso un corretto trattamento, alla stessa stregua di una ferita che lascia il segno per tutta la vita, ma senza produrre più effetti dolorosi.

L’area creativa, infine, è contraddistinta dal numero 1, perché a quel livello la persona si percepisce sola con se stessa, non mette in opera il pensiero verbale, ma si trova in uno stato di tipo “gestazionale”.
Gran parte del vocabolario adoperato per descrivere al meglio la funzione dell’area creativa fa parte del campo semantico relativo alla gestazione e alla nascita. Sembra infatti, che una nuova “creazione” debba essere sempre preceduta da un fitto, quanto misterioso lavorio interiore d’imponderabile durata: può essere fulmineo o può durare anche molti anni.

Chiudo qui il mio troppo lungo post di oggi.
Avrò occasione di continuare a breve per chi è interessato a seguire il filo del mio discorso. Nel frattempo, affido alla voce del vero maestro, Michael Balint, la descrizione di quel che lui riteneva fosse l’area creativa.

Michael Balint (1896-1970)

“La terza [area] è caratterizzata dall’assenza di qualsiasi oggetto esterno. Il soggetto è da solo, e la sua preoccupazione principale è costituita dal riuscire a produrre qualcosa al di fuori di se stesso; questo “qualcosa” da produrre può essere un oggetto, ma non è detto che lo debba essere. Propongo di chiamarlo livello – o area – creativo. Naturalmente l’esempio citato più di frequente è la creazione artistica, ma a questo stesso gruppo appartengono altri fenomeni quali le discipline matematiche, la filosofia, il raggiungere l’intuizione, la comprensione di qualcosa o qualcuno e – last but not least – due fenomeni fondamentali: le prime fasi dell’ “ammalarsi” fisicamente o psichicamente e la guarigione spontanea da una “malattia”.
Di questi processi, nonostante i numerosi tentativi fatti, si è capito molto poco. Un ovvio motivo di questa scarsità di conoscenze è che in tutta quest’area non è presente alcun oggetto esterno, e quindi non si può sviluppare una relazione di transfert. Là dove non esiste il transfert i nostri metodi analitici sono impotenti; perciò possiamo solo dedurre dalle osservazioni raccolte dopo che il soggetto ha lasciato i confini di quest’area. Appena compare sulla scena un oggetto esterno, come per esempio un’opera d’arte compiuta, una teoria matematica o filosofica, un’intuizione o una comprensione comunicabile per mezzo di parole, o appena la malattia ha raggiunto un livello tale per cui l’individuo può lamentarsene con qualcuno, abbiamo comunque un oggetto esterno, e quindi possiamo iniziare a lavorare con i nostri strumenti analitici.”

BALINT M. e E. (1968), La regressione. The basic fault. Thrills and regression, Raffaello Cortina Editore, Milano, 19831 (145-146).

Perdita

In questo periodo di progressivo deconfinamento mi chiedo cosa riusciamo a scorgere della nuova fase che stiamo attraversando.
È possibile parlarne già?
Provo a fare il punto della situazione dalla mia personale prospettiva e mi sembra di vedere che l’universo indifferente e arrogante della globalizzazione sia divenuto un mondo incerto, attraversato dal tragico dell’esistenza; le sue mille sfaccettature si riflettono nella mente e nella vita quotidiana di ciascuno.
Come inquadrare questo fenomeno, che ha posto fine alla consueta accelerazione della produzione (e dei viaggi), e ci obbliga a fare i conti con l’imprevisto? E, soprattutto, come fronteggiarlo?

Qualcosa ha subito una battuta d’arresto: la rotta sistemica, il suo ritmo, forse anche le convinzioni in base alle quali era stata programmata.
Quello che ha fatto danno durante il periodo più duro dell’epidemia – e continua a farlo ovunque nel mondo – è un fenomeno che mette sotto scacco il sapere e le conoscenze di una società che si sentiva globalmente al sicuro sotto l’egida del metodo scientifico, delle nuove tecnologie e di comportamenti più agili e moderni da mettere in atto nella vita quotidiana. La nostra società globalizzata ha perso la certezza di esercitare il controllo sul proprio andamento; ha scoperto di essersi radicata su un’illusione di quasi-onnipotenza.
Ciascuno si è ritrovato messo in questione, con dei dubbi e una domanda: ci sarà qualcuno, almeno uno, un altro, che sappia cosa fare e come risolvere?
Molti, forse per la prima volta, hanno toccato con mano l’impossibilità di affidarsi ad un sapere già noto o ad esperienze già vissute, per trovare soluzioni. Quasi tutti hanno attinto a loro stessi nuovi modi per cavarsela.
Questo ha messo in luce due componenti di questa “fase 2”: da un lato, il potere del sogno (e dell’incubo), dall’altro la forza del desiderio; il confronto con il “punto di arresto”, con la sospensione obbligatoria dei modi di procedere consueti, ha spinto molti ad interrogarsi sui propri “veri” desideri.

Sul versante personale, la pandemia ha reso tutti (o quasi) “uguali”, tutti partecipi di una situazione comune, le cui onde si sono infrante sui corpi, costringendo ciascuno ad affrontare un tipo di solitudine nuova; il confinamento per ragioni sanitarie – scelta forzata – ha dato origine all’ansia di essere ridotti ad un corpo, in cui accadono cose che si ignorano.
Essere solo un corpo che fa parte di una popolazione di corpi “a rischio Covid” significa sperimentare la scomparsa della soggettività.
Come attestare il proprio “io”, la propria soggettività, in un momento in cui improvvisamente ci si trova ad essere considerati solo “popolazione”, “numeri”, “casi”, “particelle statistiche”?
Forse attraverso sogni o incubi, in tempo di isolamento, per qualcuno un sentiero ha potuto aprirsi verso un’immagine di “io” diversa, animata da qualcosa di noto – prima – solo in modo parziale. Qualcuno ha forse trovato uno spazio per continuare a “respirare” … anche con la mascherina. Una fuga? Un fuggire altrove, ancora e in altri luoghi? Forse verso i paesaggi dell’infanzia, verso il ricongiungimento con un essere perduto o lontano, verso terre lontane come nei sogni di viaggio? Può essere. Forse perché “l’inconscio” ha provato a de-confinarsi da solo, senza attendere l’autorizzazione dall’esterno.
Ma allora, si potrebbe dire, questa crisi ha re-insegnato il misterioso valore dei sogni!
Un valore doppio, però, come avesse un più o un meno davanti alla maniera dell’algebra: da una parte è possibilità fantastica di sfuggire alle onnipresenti e frustranti influenze degli altri, ma dall’altra anche fabbrica di simboli capaci di additare una direzione personale possibile, di maggiore apertura e libertà. Del resto, è chiaro che non siamo mai solo membri di una popolazione di corpi, ma soggetti molto differenti l’uno dall’altro, animati da un desiderio indistruttibile.

Così arriviamo alla seconda componente del vivere la “fase 2”: quella del desiderio indistruttibile.
Questo desiderio, del quale ciascuno s’incarica di trovare l’origine a livello personale, a livello collettivo, di società globalizzata, si confronta con l’arresto forzato dell’esigenza o apparente necessità di accelerazione continua, massima efficienza e aumento della produttività.
Tutto si è bloccato per tutti e nello stesso tempo.
Questo “per tutti e nello stesso tempo” conta molto, perché è proprio la competizione continua con la “produttività” dell’altro, che mantiene gli individui in uno stato di sottomissione a quello che potremmo chiamare un “Super-io produttivista”.
In questo senso la battuta d’arresto è stata imposta, imprevedibilmente, alla logica economica di tipo capitalista che governa l’intero sistema, persino quello della produzione delle idee. Questa logica strapazza il soggetto, considerando le sue personali aspirazioni come secondarie rispetto alla logica sistemica della produttività; da qui deriva il comune ideale del successo personale: efficienza, produttività, denaro per essere qualcuno, per “contare” qualcosa, per non “perdere”, per non essere dei “perdenti”.
In qualche modo la mania della produttività a tutti i costi, come Lacan ci ha ben illustrato, è una sorta di risposta economica all’esperienza intima della perdita.
Lacan dava il nome di “godimento” all’esigenza stringente di fare sempre di più, perché fare di più in direzione di questo tipo di “successo” è la risposta dell’intera società capitalista alla percezione dell’indistruttibile desiderio di godere di più. L’illusione – ora tragicamente dimostrata – di poter percorrere un simile sentiero ad oltranza, sembra essere in procinto di crollare.
Comincia ad essere evidente che questo meccanismo, al contrario di quanto promette, nella realtà dei fatti ingaggia l’energia vitale dei singoli e, se condotto fino in fondo, determina nel soggetto proprio la perdita che intendeva colmare: si perde la vita, si prosciuga l’energia vitale.
Varrebbe la pena di chiedersi se l’aumento della depressione, degli attacchi di panico e dei disturbi alimentari nella nostra società non sia da correlarsi ad un simile stato di cose.

Ora il Coronavirus ha prodotto un effetto paradossale: ha autorizzato i singoli ad una sosta nella corsa folle verso la produttività, e messo sotto scacco la società capitalista, esponendo tutti ad una perdita, non solo di affetti cari in termini di vite umane, ma dell’attività lavorativa e dunque del godimento.
Ora sorge il vero problema: come ci si confronta con questa perdita, sia individualmente che collettivamente?
La psicoanalisi attribuisce un valore alla perdita, la considera una quasi-necessità per incontrare il proprio desiderio, mentre la logica economica invita a negarla.
Da una prospettiva cristiana bisognerebbe invece forse farle spazio, guardarla, interrogarla e provare a capire se sia qualcosa da colmare necessariamente.
L’instaurarsi di un simile modo di confrontarsi con la perdita ci riconnette in ogni caso con il nostro, proprio, desiderio indistruttibile, quello che è in noi fin dalla nostra infanzia, e che risulta molto spesso spostato su qualcos’altro fino al momento in cui siamo in grado di dargli il suo vero nome.
Guardare con altri occhi dentro noi stessi può anche liberarci da una vera e propria forma di alienazione: la folle corsa verso un illusorio godimento aumentato.
Dare valore alla perdita libera da un sistema che non la prende in considerazione se non come catastrofe da rimuovere, negare, reprimere o ribaltare con qualsiasi mezzo.
Oggi, l’intima assunzione della perdita in quelle persone che sono capaci di vederla, potrebbe avere un impatto politico e trasformare o cambiare del tutto le prospettive personali su ciò a cui si può dire di sì e ciò a cui si può dire di no. Forse qualcuno avrà idee più chiare nell’acconsentire a qualcosa o nel permettersi di rifiutarla, senza l’ostacolo di sentirsi un “perdente”.
In questo senso, l’esperienza del tempo del Covid, che tutti viviamo e che ognuno attraversa a proprio modo, può avere gli effetti di un risveglio.

Quando mi perdo nella mia corsa quotidiana, cosa seguo o inseguo sostanzialmente?
Percepire che la perdita di una quota di “godimento”, libera dall’obbligo di “godere” di più può essere un percorso verso la riconquista della propria soggettività, liberata da catene troppo pesanti?

La promessa della creatività – post 2

La rotta di navigazione

Post n. 2 – 27 giugno 2020

Freud fu un grande maestro e, come tale, ebbe ottimi allievi.
Alcuni tra questi si assunsero il compito, anche culturale, di differenziare e distinguere pubblicamente le proprie posizioni da quelle freudiane e, per questa ragione, serie spaccature vennero a determinarsi all’interno del movimento psicoanalitico: la prima attorno al 1913 ad opera di Carl Gustav Jung (1875-1961), la seconda attorno al 1931 ad opera di Sándor Ferenczi (1873-1933).
Sia Jung che Ferenczi svilupparono ipotesi fondamentali che mi hanno permesso di mettere a fuoco la direzione dell’indagine sulla creatività.
Jung, con la sua concezione teleologica dello sviluppo della psiche individuale, chiarì che non tutte le pulsioni non presenti alla coscienza, ad un certo stadio della sua evoluzione, sono tendenti al disadattamento sociale.
Ferenczi, con la sua concezione dei meccanismi della regressione e della loro funzione anche terapeutica, aprì la strada ad un suo allievo, Michael Balint, che ipotizzò e illustrò quella condizione psichica specifica, sottesa al cosiddetto “flusso creativo”.
‎Fin qui la seconda tappa del mio veleggiare tranquillo, avendo lasciato il porto di partenza del fondatore della psicoanalisi.
Il viaggio s’intitola La promessa della creatività e questo secondo post aveva lo scopo di indicare a grandi linee la rotta di navigazione, un itinerario di pensiero, che intendo percorrere sulle acque del blog.

Nel frattempo possiamo attraccare per poco presso una pagina di Donald Woods Winnicott (1896-1971), forse utile a rinfrescare ciò che scrivevo nel post precedente a proposito della prospettiva freudiana sulla creatività e sugli artisti, e del perchè questa prospettiva non mi convincesse neanche da giovanissima: anche allora mi muovevo, evidentemente, sul piano dell’intuizione introversa…
Se volete unirvi alla navigazione durante questa sosta, ne sarò contenta; Winnicott – tra l’altro e in maniera tangente al nostro tema – ha avuto il grande merito di sfoltire la retorica vigente sulla figura della “madre” come origine primaria di qualsiasi possibile meraviglia o nefandezza il figlio avesse a realizzare nel corso della propria vita.
Con lui abbiamo scoperto una volta e per tutte – le volte e le madri – che ai figli bastano, per crescere, genitrici “sufficientemente buone”.
Nè diavoli, nè angeli.

Donald Woods Winnicott (1896-1971)

‎”Là dove la psicoanalisi ha tentato di affrontare l’argomento della creatività ha perso di ‎vista in grande misura il tema principale. Lo scrittore analitico può avere preso in ‎considerazione qualche illustre personalità nelle arti creative e ha cercato di fare ‎osservazioni secondarie e terziarie, ignorando tutto ciò che si potrebbe chiamare ‎primario. Si può prendere Leonardo da Vinci e fare importanti ed interessanti commenti sul ‎rapporto tra il suo lavoro e taluni eventi che ebbero luogo nella sua infanzia. Molto si può ‎fare intessendo i temi del suo lavoro artistico con la sua tendenza omosessuale, ma questa ‎e altre circostanze nello studio dei grandi uomini e delle grandi donne scavalcano il tema ‎che è al centro dell’idea di creatività.
È inevitabile che tali studi di grandi uomini ‎tendano ad irritare gli artisti e le persone creative in generale: può essere che questi studi ‎che noi tentiamo di fare siano irritanti, perché sembrano voler spiegare perché ‎quest’uomo è stato grande e quella donna ha raggiunto grandi cose, ma la direzione ‎dell’indagine è sbagliata. L’argomento principale viene aggirato, quello cioè dell’impulso ‎creativo in se stesso.”‎

Winnicott D.W. (1971), Gioco e Realtà,
trad. it., Armando, Roma, 199718 (125-126).

N.B.: in copertina ritratto di Winnicott, liberamente rielaborato.
Originale a questo link.‎

La promessa della creatività

Premessa di una promessa.
Post n. 1 – 21 giugno 2020

Nel lungo percorso di studio intorno alla musica non ho mai cessato di rimanere affascinata ‎dal tema della creatività. Fin da bambina mi sono sempre chiesta per quale via i grandi ‎musicisti avessero accesso alla loro ispirazione e da quale segreta fonte attingessero i ‎contenuti e le tecniche che rendevano così belle e solide le loro opere.
Naturalmente già nell’adolescenza m’imbattei negli scritti psicoanalitici, primi tra tutti ‎quelli di Freud, che tuttavia, già allora, non offrivano alla mia comprensione quel contributo ‎autentico che andavo cercando. La visione freudiana mi apparve troppo pessimistica e più ‎tardi fui confortata del suo inserimento in quella cultura che Paul Ricoeur chiamò “del ‎sospetto” e che aveva, secondo lui, tre principali protagonisti: Freud, Marx e Nietzsche.
In buona sostanza la persona creativa era per Freud un nevrotico, che sublimava i propri ‎impulsi attraverso l’esercizio di un linguaggio socialmente accettabile, al solo scopo di ‎ricavarne piaceri altrimenti irraggiungibili; eventuali doti superiori alla media, ‎imperscrutabili per lo studioso, l’avrebbero elevato di rango, offrendogli quel ‎riconoscimento sociale, a lui negato in altri modi.
Questo punto di vista, lungi dal diminuire l’importanza di Freud e la validità di molti dei ‎suoi assunti per gli sviluppi della cultura del Novecento, mi è sempre sembrato riduttivo.

Oggi abbiamo sotto gli occhi migliaia di studi sulla creatività; questo breve saggio ha il solo ‎scopo di dire una parola ‎secondo il mio personale punto di vista.
Aggiungo che la prospettiva adottata è il frutto di una continua ricerca e di una sintesi ‎tutt’altro che compiuta, ma che a lungo e non senza sforzo si è misurata con questioni di ‎psicologia analitica, di arte moderna, di spiritualità religiosa, di filosofia politica, che hanno ‎costellato la cultura del secolo scorso e dunque gran parte della mia esperienza di vita.
Ritengo che senza la comprensione della cultura del Novecento, ogni tentativo di inquadrare ‎il presente per agire nella direzione del bene comune risulti vano.
È indispensabile avere coscienza che sulle spalle delle donne e degli uomini del XXI secolo ‎pesa l’eredità di cento anni di regressioni e progressi, meraviglie ed orrori, scoperte e ‎invenzioni, produzioni letterarie ed artistiche, avvenimenti politi e sociali, errori, misfatti e ‎pie illusioni.

Scrivo – per così dire “a puntate” – su questo blog, augurandomi di poter risultare utile a qualcuno, tentando al contempo di superare la consueta esitazione ad offrire al mondo i frutti dell’imperfezione…‎


Sigmund Freud (1856-1939)

“Anche l’artista è in germe un introverso, non molto distante dalla nevrosi. Egli è incalzato ‎da fortissimi bisogni pulsionali, vorrebbe conquistare onore, potenza, ricchezza, gloria e ‎l’amore delle donne; gli mancano però i mezzi per raggiungere queste soddisfazioni. Perciò, ‎come un qualsiasi altro insoddisfatto, egli si distacca dalla realtà e trasferisce tutto il suo ‎interesse, e anche la sua libido, sulle formazioni di desiderio della vita fantastica, dalle quali ‎il cammino potrebbe condurre alla nevrosi […] Probabilmente la loro (degli artisti) ‎costituzione possiede una forte capacità di sublimazione e una certa lassezza per quanto ‎riguarda le rimozioni determinanti il conflitto […] Per coloro che non sono artisti la messe ‎di piacere che possono ricavare dalle fonti della fantasia è molto limitata. L’inesorabilità ‎delle loro rimozioni li costringe ad accontentarsi di quei magri sogni a occhi aperti che ‎riescono a diventare coscienti. Il vero artista ha di più a sua disposizione […] Possiede ‎inoltre il misterioso potere di modellare un certo materiale fino a renderlo la fedele ‎immagine della sua rappresentazione fantastica, e poi sa congiungere a questa descrizione ‎della sua fantasia inconscia un tal conseguimento di piacere che le rimozioni ne vengono, ‎almeno temporaneamente, sopraffatte e abolite. Se è in grado di fare tutto ciò, egli ridà agli ‎altri la possibilità di attingere conforto e sollievo dalle fonti di piacere divenute inaccessibili ‎nel loro inconscio; si guadagna la loro riconoscenza e ammirazione, e raggiunge ora per ‎mezzo della sua fantasia ciò che prima aveva raggiunto solo nella sua fantasia: onore, ‎potenza e l’amore delle donne.”

Freud S. (1917), Introduzione alla psicoanalisi,
trad. it., Boringhieri, Torino, 1969 (339-340).

N.B.: in copertina libera rielaborazione del documento di pubblico dominio, visibile a questo link

Deus ex machina

Nell’attraversare indenni il tempo di emergenza sanitaria, i più hanno agito in base alla logica della resilienza: provare a far “funzionare” la vita ordinaria, nonostante tutte le restrizioni straordinarie.
Abbiamo assistito, come più volte ho rilevato altrove, ad una crescita esponenziale della comunicazione via internet e la rete ha mostrato sempre di più il suo spettacolare potenziale da grande macchina teatrale.
Attraverso la necessità di “funzionare” a tutti i costi adoperando la rete, si sono fatte strada soluzioni nuove, che mettono in evidenza la capacità tutta umana di risolvere problemi, spesso con il supporto di passioni individuali per le nuove tecnologie.
Come prete missionario sono motivato ad analizzare però quale immagine di Chiesa cattolica presente venga veicolata dal web e se quest’immagine corrisponda alla logica del Vangelo.
Le abilità tecnologiche dei singoli hanno trovato aggancio nel continuo perfezionamento delle piattaforme digitali quali Zoom, YouTube, Skype, Facebook, tanto per citare solo le più note.
Uno degli innegabili risultati è stato però l’effetto “ridondanza”. Non è bastato il collegamento con le Messe in diretta del Santo Padre, i reportage dei siti connessi al Vaticano e l’impegno in diretta “live” dei parroci; si sono moltiplicate liturgie eucaristiche, adorazioni, preghiere, rosari e gruppi di catechesi e catechismo, semplici lezioni su YouTube e riunioni online.
L’abbondanza ridondante è fiorita ovunque.

L’uso di cotanta tecnica mi ha fatto pensare a quella macchina teatrale, che veniva usata nella tragedia greca, il deus ex machina: uno strabiliante macchinario che scendeva dall’alto, trasportando la divinità, risolutrice miracolosa di problemi umani tremendi e ingarbugliatissimi.
Non posso fare a meno di ripensare con un sorriso a questa sublime trovata dei tragediografi greci, quando vedo taluni spettacolarizzare troppo se stessi e la propria appartenenza religiosa attraverso il web.
Così mi domando: e se appartenesse alla libertà graziosa del “Deus” il muoversi senza “machina”, così come tutto fa fortemente sospettare leggendo i Vangeli?
Come faremo a comunicare con Lui, in queste condizioni?


Qualcuno ha accusato la Chiesa Cattolica presente di “stemperare il fatto salvifico”, ponendo in secondo piano i valori assoluti del vero, del bello, del buono e la trascendenza. Del fatto salvifico si omette però di citare una componente non secondaria: la parusia; sì, perché al fatto salvifico appartengono intrinsecamente e inscindibilmente non soltanto la crocifissione e la risurrezione, ma anche la promessa del ritorno del Cristo negli ultimi tempi…
Ora, il ritorno del Cristo non è un evento organizzato sul web, e nemmeno sarà, presumibilmente, la discesa nel teatro degli uomini, tramite macchinari calati dall’alto come nella tragedia greca.
Sappiamo già cosa dice il Cristo al suo ritorno: “Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,35-40).

Forse che il cristianesimo, dimentico di queste parole, sta continuando, a modo suo, il modello dell’Impero Romano, costruito come società d’impresa attraverso la dominazione, la ricchezza e la tecnica?
Non lo so, però ora è evidente che il cristianesimo (la “ditta Gesù Cristo”, come l’aveva ribattezzata ferocemente Kierkegaard) è già, almeno nell’occidente scristianizzato, espropriato della sua dominazione – la “cura collettiva” dell’epidemia è definitivamente passata dai sacerdoti agli epidemiologi e al corpo medico – ed espropriato della sua ricchezza – l’epidemia non fa affari con l’obolo della Chiesa.
Quindi, resta solo la tecnica.
Il confinamento ha costretto i chierici ad una sorta di cassa integrazione (disoccupazione tecnica) insopportabile? Pazienza: anche la Chiesa ha trovato, grazie agli artifici della tecnica, i mezzi per garantire una manutenzione e un funzionamento impeccabili e senza interruzione; ha dunque ostinatamente evitato di vivere quel tempus clausum offerto al silenzio, alla pazienza, alla riflessione, alla preghiera, che non può essere abrogato o abbreviato; invece di approfittare di uno spazio di ascesi, la chiesa si è filmata, fotografata, registrata e ha restituito la sua immagine – cosa molto interessante – senza trucco: bianca, maschile e sacerdotale.
Questo ha fatto dire a molti che la Chiesa appare come “lo spirito di un mondo senza spirito”…e non sarà certo colpa di Carlo Marx…!

Allora forse dobbiamo imparare a vivere un cristianesimo senza macchinari e imparare nuovamente a sillabare i cosiddetti valori relativi, conseguenti alla fede nel Cristo: la solidarietà, la pace, la terra, il dialogo.
In nome del vangelo. Nel nome del Dio vivente. Senza confondere la grazia con la tecnica che la rappresenta, nel tentativo di colonizzare il reale, magari spruzzando acqua santa sui tetti dall’elicottero, o, più modestamente, dall’ape-car, moderno deus ex machina a portata di parrocchie più povere.

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