Le tre aree della mente
Nel 1958 Michael Balint, cui ho fatto un rapido riferimento nel post n. 2 del 27 giugno, pubblicò un articolo intitolato The Three Areas of the Mind, che confluì nel testo del 1968, The Basic Fault (in italiano Il Difetto Fondamentale).
Le conclusioni elaborate da Balint in The Basic Fault sono interessanti in primo luogo perché indicano l’esistenza di una zona di frontiera difficilmente valicabile nell’uso del linguaggio verbale e ogni persona può incontrarla per motivi assai diversi; in secondo luogo perché queste conclusioni hanno contribuito ad aprire uno spiraglio significativo su cosa sia veramente la dimensione creativa e a quale tipo d’impulso corrisponda.
Come spesso succede, la necessità di curare la sofferenza, sia fisica che psichica, porta a conclusioni utili anche per chi gode di ottima salute.
Innanzi tutto provo a riassumere brevemente le idee fondamentali di questo autore partendo da due premesse necessarie.
- Nel discutere alcune problematiche di tecnica analitica, Balint sottolinea che le due concezioni cosiddette “topiche” di Freud, tanto la prima (la strutturazione teorica dei contenuti mentali in inconscio, preconscio e conscio), quanto la seconda (la successiva descrizione teorica della psiche come suddivisa nelle tre istanze dell’Io, dell’Es e del Super-io), non sempre risultano funzionali per affrontare una serie di casi particolari, relativi a persone che hanno vissuto esperienze assai negative in età molto precoce.
- I due livelli di riferimento del lavoro analitico individuati dalla teoria psicoanalitica classica, quello dell’elaborazione del conflitto comunemente illustrato utilizzando il mito di Edipo, e quello dell’elaborazione dei contenuti appartenenti ad un’area temporalmente anteriore, detta “pre-edipica”, “pre-genitale” o “pre-verbale”, non sono sufficienti per curare tutti i casi con successo. Questa seconda premessa è quella che maggiormente ci riguarda nell’ambito della nostra indagine sulla creatività.
Per quanto riguarda il primo punto, Balint ipotizza che, se la causa della sofferenza psichica di una persona risale ad esperienze anteriori allo sviluppo della capacità di usare il linguaggio verbale, può darsi che quella persona, anche da adulta, non solo non sia capace di descrivere esattamente a parole il disagio di cui soffre, perché le mancano le parole per descriverlo ora come allora, ma potrebbe non essere in grado di “comprendere” l’interpretazione dell’analista, proprio perché è veicolata dal linguaggio verbale adulto.
Si consideri che i ricordi risalenti alla prima infanzia sono normalmente oscurati, essendo sepolti nei labirinti della memoria; quelli più negativi in particolare, i “traumi”, vengono anche mascherati o addirittura cancellati (“rimossi”) dai cosiddetti “meccanismi di difesa”, strategie quasi automatiche e spesso inconsapevoli, che ciascuno di noi, anche nella vita ordinaria e a livello di normale salute mentale, mette in atto per finalità di adattamento sociale.
I meccanismi di difesa adattivi, infatti, nell’economia generale del sistema psichico, servono per l’appunto a difendersi da qualcosa di poco piacevole si tema possa accadere e che potrebbe creare troppa tensione nella vita di tutti i giorni o mettere in discussione l’idea che ciascuno preferisce conservare di se stesso.
Se il tema della mancata comprensione linguistica tra analista e paziente adulto, così come descritto da Balint, può sembrare strano, occorre ricordare tre “fatti”:
- che il linguaggio è l’unico strumento a disposizione degli umani per esprimere in maniera chiara e ragionevole ogni cosa li riguardi e per rendere il tutto comunicabile, nonché comprensibile ad altri;
- che il linguaggio è lo strumento principale della psicoterapia psicoanalitica, il cui obbiettivo è curare la sofferenza psichica attraverso la parola;
- che la mancata comprensione dei messaggi linguistici tra persone che parlano apparentemente la stessa lingua allo stesso livello di competenza, è esperienza a chiunque nota; quindi è facile rendersi conto dell’impossibilità di un dialogo sufficientemente chiaro tra un analista adulto e un paziente adulto, ma parzialmente regredito all’età di uno o due anni (letteralmente “tornato indietro” in un settore delle proprie abilità).
Questo può succedere, e può non dipendere da questioni di natura organica o culturale.
Sempre nell’ambito del primo punto citato in premessa, introduco una breve parentesi: il modo che ho scelto per parlare di questi temi su questo blog si avvale di un linguaggio il più possibile chiaro e non specialistico, o almeno è questo il mio intento; trovo che il “gergo”, o, se preferite, “la lingua” adoperata in ogni settore disciplinare, compresi gli anglicismi adottati in tutti i campi, dalle scienze alla politica, dall’informatica all’economia, siano mezzi adatti allo scambio d’informazioni tra specialisti del campo di appartenenza, ma se nessuno compie sistematicamente lo sforzo di rendere comprensibili queste lingue almeno alla media della popolazione interessata, il “gergo” specialistico contribuisce a creare incomprensione e diseguaglianza sociale; può essere usato anche come strumento per attestare il valore e/o la presunta posizione di superiorità e/o potere di chi scrive o parla.
Torniamo a Balint. Secondo quest’autore, la tecnica psicoanalitica, tendente a restituire verbalmente al paziente i contenuti delle sue esperienze preverbali tramite “l’interpretazione” classica, sarebbe inadeguata per rendere comprensibili al paziente i meccanismi e i contenuti attivi nella sua mente, che gli creano proprio la maggior quota di disagio nel presente.
In altri termini la psicoanalisi fallirebbe proprio nei casi in cui sarebbe più urgente funzionasse e, per di più, a causa di una carenza nel metodo.
Il che non sembra una faccenda bellissima e Balint, come Ferenczi, se ne rendeva conto.
Veniamo al secondo dei due punti indicati sopra: secondo Balint il lavoro analitico deve svolgersi su tre livelli e non su due: c’è un livello in più rispetto alla teoria classica, quello della creatività, e il livello cosiddetto pre-edipico assume caratteristiche un po’ diverse; verrà chiamato area del “difetto fondamentale”.
Fa capolino qui piuttosto chiaramente, in uno spazio teorico rilevante, il tema della creatività, il più interessante per la nostra rotta di navigazione interdisciplinare verso una migliore conoscenza della sfera creativa in senso generale.
A ciascuno dei tre livelli l’autore decise di dare il generico nome di “area”, non senza un certo imbarazzo di natura teorica.
Personalmente mi sembra di capire molto bene questo imbarazzo, perché fin troppo spesso la teoria psicoanalitica ha avuto la tendenza ad ipostatizzare i suoi concetti teorici, specialmente sul piano divulgativo.
Sarebbe meglio ricordare sempre che le componenti teoriche sono solo formulazioni modificabili nel tempo, utili al presente per fornire spiegazioni non altrimenti possibili.
Non esiste sostanzialmente alcun Io o Super-io o Es, come non esiste nessuna area edipica nel cervello o in altre parti del corpo. In effetti suona buffo quando si parla del “mio Io”, del “mio Super-io”, del mio “Io-bambino” e altre amenità simili, come si trattasse di personaggi che ci accompagnano in giro per il mondo.
Nel cervello e in tutto il corpo si verificano invece processi di cui normalmente non siamo a conoscenza che in minima parte; la psicoanalisi tende a ridurli e a formularli in maniera funzionale alla cura.
Torniamo alle tre aree di Balint; sono contraddistinte non solo dal ruolo che in esse può esercitare il linguaggio verbale, ma anche dal numero delle componenti produttrici di “rappresentazioni mentali”, gli aggregati di percezioni, immagini, pensieri, intuizioni, emozioni e sensazioni di cui è satura la nostra vita psichica.
L’area edipica è contraddistinta dal numero 3, perché a quel livello la persona è sempre in relazione con altri due “oggetti interni”; tipicamente si tratta della rappresentazione interiore che ciascuno di noi conserva di due persone o almeno di una persona ed un oggetto che risalgono alle prime esperienze avute affacciandosi al mondo.
Nell’area edipica tutto sembra essere governabile attraverso il linguaggio adulto, perché la persona, per quanto a disagio possa essere, è sempre potenzialmente in grado di dire, di ascoltare, di capire, di confrontarsi utilmente nei termini del linguaggio convenzionale.
L’area del “difetto fondamentale” è contraddistinta dal numero 2, perché qui la persona si percepisce sempre in un rapporto a due con un altro.
A questo livello, se viene raggiunto in terapia, si possono trovare le tracce di una mancanza, di una ferita, di un evento, comunque di un qualcosa che nella vita di quella persona è andato purtroppo veramente “storto” in età assai precoce. Si tratta di qualcosa che non può essere in alcun modo ristrutturato attraverso l’esperienza per consentire una risposta più adattiva; è qualcosa che può però cicatrizzarsi attraverso un corretto trattamento, alla stessa stregua di una ferita che lascia il segno per tutta la vita, ma senza produrre più effetti dolorosi.
L’area creativa, infine, è contraddistinta dal numero 1, perché a quel livello la persona si percepisce sola con se stessa, non mette in opera il pensiero verbale, ma si trova in uno stato di tipo “gestazionale”.
Gran parte del vocabolario adoperato per descrivere al meglio la funzione dell’area creativa fa parte del campo semantico relativo alla gestazione e alla nascita. Sembra infatti, che una nuova “creazione” debba essere sempre preceduta da un fitto, quanto misterioso lavorio interiore d’imponderabile durata: può essere fulmineo o può durare anche molti anni.
Chiudo qui il mio troppo lungo post di oggi.
Avrò occasione di continuare a breve per chi è interessato a seguire il filo del mio discorso. Nel frattempo, affido alla voce del vero maestro, Michael Balint, la descrizione di quel che lui riteneva fosse l’area creativa.
Michael Balint (1896-1970)
“La terza [area] è caratterizzata dall’assenza di qualsiasi oggetto esterno. Il soggetto è da solo, e la sua preoccupazione principale è costituita dal riuscire a produrre qualcosa al di fuori di se stesso; questo “qualcosa” da produrre può essere un oggetto, ma non è detto che lo debba essere. Propongo di chiamarlo livello – o area – creativo. Naturalmente l’esempio citato più di frequente è la creazione artistica, ma a questo stesso gruppo appartengono altri fenomeni quali le discipline matematiche, la filosofia, il raggiungere l’intuizione, la comprensione di qualcosa o qualcuno e – last but not least – due fenomeni fondamentali: le prime fasi dell’ “ammalarsi” fisicamente o psichicamente e la guarigione spontanea da una “malattia”.
Di questi processi, nonostante i numerosi tentativi fatti, si è capito molto poco. Un ovvio motivo di questa scarsità di conoscenze è che in tutta quest’area non è presente alcun oggetto esterno, e quindi non si può sviluppare una relazione di transfert. Là dove non esiste il transfert i nostri metodi analitici sono impotenti; perciò possiamo solo dedurre dalle osservazioni raccolte dopo che il soggetto ha lasciato i confini di quest’area. Appena compare sulla scena un oggetto esterno, come per esempio un’opera d’arte compiuta, una teoria matematica o filosofica, un’intuizione o una comprensione comunicabile per mezzo di parole, o appena la malattia ha raggiunto un livello tale per cui l’individuo può lamentarsene con qualcuno, abbiamo comunque un oggetto esterno, e quindi possiamo iniziare a lavorare con i nostri strumenti analitici.”
BALINT M. e E. (1968), La regressione. The basic fault. Thrills and regression, Raffaello Cortina Editore, Milano, 19831 (145-146).
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