Libertà interiore

“Io sto a casa.” Resto in casa. La “mia” casa.
Ma cos’è questo luogo per alcuni diventato prigione, confino, domicilio coatto, dove ci si sente costretti, impediti, bloccati, come murati vivi, mentre per altri è divenuto terra di nuove scoperte?

In fondo in fondo, cosa ci ha tolto lo stare in casa? Forse la varietà delle situazioni di vita?
Per molti è stato un aumento del tasso di cura da ascriversi al capitolo “famiglia” e/o “conduzione operatività domestica”: spese (più che mai strettamente alimentari), riordino, pulizia, cucina, scuola da casa, compiti, giochi, supporto, attenzioni relazionali e riparazioni pratiche.
Ad ascoltare in giro, sembra che le parole e i gesti della cura abbiano preso il primo posto.
Forse il “prossimo mondo” – al di là della mia portata riflessiva – sarà caratterizzato dalla ripresa del controllo su ciò che era un po’ sfuggito di mano? In senso letterale e figurato?
Il rumore dei consumi è diminuito, per migliorare la vita di tutti i giorni – così si esprimevano alcuni amici. Pare sia necessario “rimettere le mani in pasta”; tanti, letteralmente, hanno provato, forse perfino per la prima volta, a “fare il pane” in casa. Ma non solo, qualcuno ci ha provato anche simbolicamente.

Una deriva pericolosa?
Sto parlando della “cura”. Quella spesso lasciata ad altri: tate, educatori, insegnanti, animatori, babysitter, badanti…
Certo, è così che la società del lavoro neoliberista ci vuole: fuori dalle case, efficienti sul lavoro, deleganti le cure quotidiane ad altri, consumatori di beni e servizi resi essenziali da questa organizzazione.
Forse avevamo perso qualcosa con l’assistenza e la cura in delega?
Nessuno lo dirà con semplicità. Chi oserebbe esprimerlo in quattro e quattr’otto? È difficile da dire e da ascoltare, perché è già complicato avere il tempo per articolare la vita professionale e quella familiare. Dovremmo in più trovare quello per esaminare la nostra coscienza?
Eppure questo isolamento insegna qualcosa anche alle comunità religiose, se lo si vuole ascoltare…
Sì, i lavori domestici sono ripetitivi, a volte monotoni, spesso stancanti, ma hanno un pregio indiscutibile: tengono nella vita, attaccati alla realtà: è la loro funzione primaria; sono l’eco della nostra corporeità e della sua fragilità, sono necessari per soddisfare bisogni reali e, come tali, consentono di distinguere tra desideri e capricci, stilando una classifica delle nostre priorità.
C’è l’essenziale e c’è il superfluo, concetti non così astratti e molto spesso manipolati dal discorso pubblicitario e dal mito dell’efficienza. Ad ascoltare bene, sussurrano una preziosa lezione di vita: dicono che siamo umani come tutti gli altri. Niente di più, niente di meno.
C’è anche un “rovescio della medaglia”, non sempre in luce per la nostra coscienza: prendersi cura delle persone che abbiamo accanto (il prossimo forse comincia da lì?), ci rende unici per coloro con i quali viviamo: bambini, anziani, coniuge, fratelli (anche con-fratelli); nel corso dei giorni vengono fatti migliaia di gesti che intrecciano legami singolari, costruiscono una storia comune.
Questo tipo di “cura” può preoccuparci assai: chiede e chiama in prima persona.
Il dono gratuito delle cure e della cura rimane tuttavia la nostra folle speranza…
Il Vangelo ci promette che è possibile e fecondo: “date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”. (Luca 6,38).
Ma allora il “prossimo mondo”, quello del “ce la possiamo fare” sarà caratterizzato dalla ripresa del controllo su ciò che era un po’ sfuggito di mano? In senso letterale e figurato?
Il nuovo mondo dopo la pandemia, affinché sia migliore di quello di prima, dovrebbe essere lasciato incarnare in noi stessi. Allora forse vedremo un nuovo mondo bambino.
Ci accorgeremo allora che l’attenzione è l’attività più alta, come scriveva Simone Weil, e che richiede tempo e presenza. Nove settimane di “reclusione” non sono troppo per questo tipo di esercizio, una specie di apprendimento di destrezza.
Quando arriverà la fine di questa parentesi pandemica, forse avremo sviluppato il gusto di essere cercatori di attenzione, di cura.
Senza dubbio, in futuro, si continuerà a delegare parte della cura, e avremo l’impressione di aver recuperato “il controllo” di ciò che ci era sfuggito di mano.
Ma…attenzione…subappaltando la cura alla maniera neoliberista, avremo sempre bisogno di “servi”, di “domestici”,… di…personale di servizio.
Solo la libertà interiore, quella che non ci fa mai sentire murati vivi e ci rende autonomi, capaci di camminare sulle nostre gambe, senza alcuna necessità di controllare l’altro, né di essere controllati, ci rende consapevoli che la nostra umanità si gioca proprio nel mondo delle relazioni umane. Così potremo restituire al mondo le sfumature e il gusto dello spazio privato condiviso, in preparazione della nuova polis.
Metteremo le mani in pasta? Useremo ancora il vecchio lievito, oppure il nuovo?
Con che pane ci nutriremo? Saremo capaci di vivere la “polis” come casa comune?

“Ce la possiamo fare”

“Non rivedremo più il mondo che abbiamo lasciato” ha sostituito “Andrà tutto bene”.
Per prendere le distanze dalla retorica del “mondo di ieri”, slogan per slogan, preferisco “Ce la possiamo fare”.
La pertinenza dell’affermazione “niente sarà più come prima” alla condizione attuale dell’ecosistema terra è dubbia.
Nell’intero sistema alcuni effetti circolari impediscono di misurare oggettivamente ciò che persiste e aumenta con il favore della crisi: il facile consenso alla privazione delle libertà. Le stesse, conquistate attraverso una lunga storia e l’impegno, se non addirittura il sacrificio, di molti.
È evidente che la nostra esperienza collettiva del mondo non sarà la stessa, perché si trasforma ad ogni crisi che segna la coscienza e la memoria comune.
Creare uno slogan che non sia evanescente propaganda da cestinare significa prendersi prima la briga di dare un nome adeguato a quello che ci sta accadendo.

Alcuni sostengono che si è eliminato un tabù accettando collettivamente che molti morissero nella solitudine per evitare i contagi.
Non c’era bisogno del Covid19 per scoprirci mortali, ma qualcuno si è reso conto della precarietà dell’esistenza solo in questa circostanza.
D’altro canto, l’epidemia ha messo a nudo l’incontestabilità solo apparente di quello che sembrava un postulato incontestabile: ogni vita umana merita di essere salvata.
Allora è necessario dire anche che questo postulato non è mai stato condiviso dall’intero sistema mondiale, neanche prima dell’ultima emergenza sanitaria; ce ne accorgiamo solo ora, perché l’epidemia ha coinvolto tutti, anche il cosiddetto “primo mondo”: in Cina, in Germania, in Italia, in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti…e non solo i Paesi più poveri, come solitamente avviene.
Quindi di quale tabù stiamo parlando?

Abbiamo visto militari in azione presidiare ospedali e portare via i morti, personale sanitario reclutato d’urgenza, mentre la chiesa non ha mai ufficialmente richiamato i suoi presbiteri, su base volontaria, perché andassero negli ospedali ad assistere gli infermi.
Ha reclamato l’apertura delle chiese, perché i fedeli potessero andarvi, si è discusso di eucaristia e di confessioni, di battesimi e di cresime, ma nessuno che abbia mai detto chiaramente che c’è un momento della vita di tutti – e non è necessariamente quello della morte – durante il quale un credente ha il pieno diritto ad avere accanto, oltre ai medici e agli infermieri, anche un prete: i sacramenti sono 7si tace, forse per pudore, l’unzione degli infermi.
Naturalmente non tutti i religiosi si sono comportati come don Abbondio; molti, centrati sul vangelo, si sono distinti per coraggio e impegno.
Parliamo ora del “confinamento”.
Molti di noi hanno tollerato il confinamento, credo, esclusivamente per tutelare altri, non certo per una vocazione alla sudditanza; non è stato un confinamento per stare sul divano, ma vissuto come cura della casa, fisica e del cuore; per studiare di più, per capire cosa ci stava accadendo, per curare chi ci stava vicino, per pensare e vivere. Per questo reclamiamo una nuova fase dell’intero sistema, che permetta a ciascuno di comprendere le stupidaggini credute vere fino ad oggi, mentre vere non erano, di guardarsi dentro per capire dove siamo già morti e senza possibilità di risurrezione e, soprattutto di ritornare a vivere per amore di noi stessi e degli altri. Perché l’amore ha due facce, una diretta all’interno ed una all’esterno: non si manifesta mai se non con tutte e due.

Parliamo di trasformazioni urgenti per una società nella quale potremo dire “Ce la possiamo fare” con autenticità.
L’epidemia ha messo a nudo i bisogni fondamentali: ha mostrato l’importanza di non depauperare il settore pubblico della sanità e il settore pubblico dell’educazione scolastica e universitaria.
Speriamo di aver capito tutti che i budget per questi settori devono essere protetti, incrementati e sostenuti.
Inoltre, mi domando, si sarà compreso veramente che l’idea del reddito universale non è etica del “fannullismo”? Chi la sostiene in buona fede pensa che ognuno debba poter avere gli strumenti per vivere e fare quello che può, collaborando al bene generalenon si tratta di assistenzialismo, si tratta di capire che non può semplicemente essere il mercato a determinare il progresso umano; al massimo, il mercato, lasciato libero, promuoverà una nuova legge della junglaSe uno ha “di più”, tanto di più che una vita non basta per “spendere tutto”, non è perché è più bravo ma perché altri vengono destinati ad avere di meno.
Assistenzialismo è generare parassiti, rendite permanenti, privilegi non negoziabili per principio, a danno di altri, costretti al caporalato, allo sfruttamento, al lavoro nero, al lavoro minorile e a vivere senza un tetto sulla testa.
Mentre corriamo il rischio di abituarci agli avvisi sanitari che richiederanno sorveglianza e una forza di polizia alimentata da denunce e da reclami, corriamo il rischio ancora più forte di non cogliere l’urgenza di progettare i modi e i tempi della trasformazione della nostra civiltà in un ecosistema migliore nel quale – per necessità – salute, giustizia sociale e partecipazione politica saranno inscindibili.

E la chiesa? Ovvero la formazione alla fede e alla partecipazione sociale all’interno e all’esterno delle istituzioni religiose? Quali sono i collegamenti debiti con la politica? Quali quelli indebiti? La chiesa che istituisce cappellani e vescovi per tutte le forze armate e per seguirli in tutte le operazioni militari in capo al mondo, che ha pure cappellani e vescovi fra gli operatori sanitari, perché in alcuni casi non ha ritenuto di dover ascoltare troppo papa Francesco e ha continuato a mostrarsi solo dietro uno schermo, in posture sempre uguali sul web?
Che cos’è il sesto continente da abitare? Quello della presenza reale nella vita già eterna da qui sulla terra, o l’etere impalpabile della trasmissione dei dati informatizzati? Si possono separare questi due aspetti dell’umano e viverne uno solo? Dove abbiamo toccato il Cristo in questo periodo?
Il vangelo è l’unico “dato” non negoziabile e bisogna tornare a leggerlo ad ogni istante con occhi nuovi. C’è bisogno, forse prima che di lectio divina, d’imparare a leggere come bambini in prima elementare: catechismo per religiosi e per i laici
.

Tutto come prima?

Una volta superata questa tragedia, tutto ricomincerà da capo? Come prima?Negli ultimi trenta anni, ogni crisi ha alimentato un’irragionevole aspettativa: l’avvento di un ritorno alla ragione, alla consapevolezza, al cambio di rotta. Abbiamo creduto nell’inversione della dinamica socio-politica perché pensavamo che se ne fossero misurate le minacce.
Il crollo del mercato azionario del 1987 aveva contenuto l’impennata delle privatizzazioni; le crisi finanziarie del 1997 e del 2007-2008, avevano scosso la globalizzazione felice. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 a loro volta provocarono riflessioni critiche sull’arroganza americana e suscitarono domande accorate del tipo: “Ma perché ci odiano?”

Ora dovremmo chiederci perché il movimento delle idee, anche fertili, non è mai in grado togliere le ruote alle macchine infernali e perchè alcuni governi sembrano avere la vocazione alla simulazione, giocando ad ogni catastrofe, come fosse un incendio, per poter poi fare i pompieri.
Anche ora che – come le nostre – le loro vite sono in pericolo.

Molti di noi non hanno sperimentato direttamente né guerre, né colpi di stato militari, né coprifuoco.
Tuttavia, alla fine di marzo, quasi tre miliardi di persone si sono trovate confinate, spesso in condizioni difficili per non dire impossibili.
La maggior parte dei confinati in casa non sono scrittori che osservavano le camelie in fiore nel giardino della loro casa di campagna.
Moltissimi una casa non ce l’hanno neppure.
Qualunque cosa accada nelle prossime settimane, la crisi del coronavirus sarà stata la prima ansia globale della nostra esistenza.
Questo non si dimentica.

L’unione europea ha annunciato la “sospensione generale” delle sue regole di bilancio; già…le regole di bilancio…Poco più di un decennio fa, per salvare il loro sistema in difficoltà, accettarono uno spettacolare aumento del debito; dipinto al grande pubblico come “stimolo fiscale”. Accettarono la nazionalizzazione delle banche, e il parziale ripristino dei controlli sui capitali.
Poi è arrivata la stagione dell’austerità e sono tornate le privatizzazioni, quelle che permisero di riprendere con la mano sinistra quello che si era lasciato con la destra.
Il “popolo” ne misurò i “progressi”: si ritrovò a lavorare di più, più a lungo, per più tempo, in condizioni di maggiore insicurezza, e “investitori” e correntisti a pagare meno tasse.
Di queste capriole, il popolo greco ha fatto le spese, quando i suoi ospedali pubblici, in difficoltà finanziarie e a corto di medicine,  osservarono il ritorno di malattie che si ritenevano scomparse.
Così, ciò che inizialmente lasciava credere a una “conversione” sulla “via di Damasco” del sistema, si è trasformato in un’ottima occasione per far passare in scioltezza misure di salvataggio dei soliti noti, con le conseguenti e continue restrizioni imposte alle libertà pubbliche, con il pretesto della lotta al terrorismo, alla guerra in Iraq e alle innumerevoli catastrofi che questa decisione anglo-americana causava.

Oggi – circa venti anni dopo – non è necessario essere poeta o profeta, per immaginare un’altra “strategia shock” che sta prendendo forma.
Corollario agli slogan del “io resto a casa” e del “distanziamento sociale”, l’insieme delle nostre socialità rischia di essere sconvolto dalla digitalizzazione accelerata.
L’emergenza sanitaria renderà ancora più pressante o del tutto obsoleta la questione se sia ancora possibile vivere senza internet.
Ognuno deve già sempre avere documenti d’identità in tasca; presto un telefono cellulare non sarà solo utile, ma necessario ai fini del controllo.
E poiché le monete e le banconote sono una potenziale fonte di contaminazione, le carte di credito – di debito – diventate nel frattempo garanzia di sanità pubblica, consentiranno definitivamente di elencare, registrare e archiviare ogni acquisto, tracciare i movimenti e non solo quelli del denaro. Anche le banche sapranno ben presto, e proprio di tutti, dov’è che siamo e a comprare cosa in quale preciso momento.
Ecco, è bene saperlo, sono queste le libertà di cui godremo illimitatamente.

“Credito sociale” alla cinese o “capitalismo di sorveglianza”, ovvero il declino storico del diritto inalienabile a non lasciare traccia del proprio passaggio quando non si infrange nessuna legge, si stabiliscono nelle nostre menti e nelle nostre vite, senza incontrare altre reazioni all’infuori di un silenzio immaturo o di goffe difese di un presunto bene comune.
Se la salute fosse considerata un bene comune, forse oggi non saremmo nella situazione in cui siamo.

Già prima del coronavirus era diventato impossibile prendere un treno senza digitare su qualche modulo nome e cognome; usare la carta di credito online significava già far conoscere il numero di cellulare; le molteplici telecamere garantivano la ripresa – o la presa. Per tutti. E tutti trattati come potenziali criminali.

Con la crisi sanitaria viene fatto un nuovo passo avanti. In tante parti del mondo droni monitorano aree di accesso;  sensori alle entrate avvisano – le autorità – quando la temperatura di un residente rappresenta un pericolo per la collettività; persone che devono scegliere tra l’installazione di un’applicazione di controllo del confinamento sul proprio cellulare, e le visite di polizia senza preavviso a casa…In tempi di disastri tali dispositivi di monitoraggio sono plebiscitati: è chiaro.

Ma sopravviveranno alle emergenze che li hanno dati alla luce!
Gli sconvolgimenti economici che stanno prendendo forma consolidano anche un universo in cui le libertà si restringono. Per evitare ogni contaminazione, in tutto il mondo, milioni di aziende alimentari, caffè, cinema, librerie, hanno chiuso. Non hanno un servizio di consegna a domicilio e non hanno la possibilità di vendere contenuti virtuali.
Dopo la crisi, quanti di loro riapriranno e in quali condizioni?
Gli affari tuttavia sono ottimi e sempre più sorridenti per i giganti della distribuzione. Si stanno preparando a creare migliaia di posti di lavoro per capillarizzare meglio i loro “servizi”. D’altronde, chi meglio di loro conosce i nostri gusti e le nostre scelte?

In questo senso, la crisi del coronavirus può costituire la prova generale che prefigura lo scioglimento degli ultimi focolai di resistenza al capitalismo digitale e l’avvento di una società senza contatti umani, ma sovrappopolata di globali amicizie digitali.

A meno che … A meno che voci, gesti, gruppi, popoli, stati, non perturbino e tolgano le ruote a questa macchina apparentemente guidata da un’intelligenza artificiale, ma il cui volante è saldamente in mano a menti pericolose.
È comune sentire: “La politica non è affar mio”.
Fino al giorno in cui tutti capiremo che sono state le “scelte politiche” a costringere i medici a selezionare i pazienti da salvare e quelli da sacrificare.
Ecco. Ci siamo.

Ciò è tanto più vero nei paesi dell’Europa centrale, nei Balcani e in Africa che, per anni, hanno visto il loro personale medico emigrare verso regioni meno minacciate e lavori più redditizi. Non sono scelte dettate dalle leggi della natura. Oggi, forse, lo capiamo meglio.
Il confinamento è anche un momento per fermarsi e pensare, con la preoccupazione di agire. Da ora.
Perché, contrariamente a quanto si sente e si legge, non si tratta soltanto di mettere in discussione il modello di sviluppo sul quale il nostro mondo è incentrato.
Bisogna cambiarlo. Delegare la nostra protezione agli altri è pura follia.
Follia è la strategia di un mercato che non è mai stato libero.
Follia sono gli accordi di libero scambio che hanno sacrificato le sovranità nazionali ed eretto la concorrenza a valore assoluto.

Abbiamo ormai misurato quanto costa spargere le catene di approvvigionamento in tutto il mondo e trovarsi ad operare senza scorte per rifornire un paese in difficoltà con milioni di maschere sanitarie e prodotti farmaceutici dai quali dipende la vita dei suoi cittadini, del personale ospedaliero, dai distributori alle commesse.

Tutti sanno anche quanto costa al pianeta aver subito la deforestazione, la delocalizzazione, l’accumulo dei rifiuti, la mobilità permanente.
Ecologia, giustizia sociale e salute sono parti collegate: costituiscono gli elementi chiave di un programma di rottura.
Un programma, per chi lo vuole leggere, presente nella Laudato si’ di Papa Francesco. Ma non tutti, chissà perchè, sono disposti a vederlo.
Forse perchè il meccanismo ha già inglobato anche chi, per abito e vocazione, dovrebbe esserlo?

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