Intorno al 1942 in Gran Bretagna, Simone Weil, mentre preparava il suo ultimo capolavoro, La prima radice, esaminava documenti, rapporti, bollettini, riviste, bozze di progetti costituzionali su incarico di France Combattante, in un contesto di guerra volto a liberarsi del nazismo e ispirato alle idee del generale de Gaulle. Fu così che mise a fuoco una serie di “bisogni dell’anima” – come lei li chiamava – in coppie di opposti:
- eguaglianza e gerarchia
- obbedienza consentita e libertà
- verità e libertà di espressione
- solitudine e intimità
- proprietà personale e collettiva
- castigo e onore
- partecipazione disciplinata a un compito condiviso di pubblica utilità e iniziativa personale in questa partecipazione
- sicurezza e rischio.
La Weil era convinta che “il criterio che consente di riconoscere che in un determinato luogo i bisogni degli esseri umani sono soddisfatti è il fiorire della fraternità, della gioia, della bellezza, della felicità. Là dove vi è ripiegamento su se stessi, tristezza, bruttura, ci sono delle privazioni da guarire.” (Weil S., Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, ed. it. a cura di D.Canciani e M.A.Vito, Lit Edizioni, Roma, 2013, p.32).
Si può oggi anche sostenere che Simone Weil fosse una visionaria idealista, malgrado la sua originaria prospettiva marxista, concretamente ancorata alla fortemente voluta esperienza personale del lavoro in fabbrica, ma è proprio il connubio tra solida formazione politico filosofica e partecipazione pratica alla vita ordinaria, che le permise di fare un’analisi dei bisogni umani molto più approfondita e realistica delle prospettive contemporanee a lei ieri e a noi oggi.
Tra tutte le riflessioni che mi vengono in mente, una risalta al momento a proposito di verità e libertà di espressione.
Oggi è piuttosto comune l’idea che non esista una verità assoluta, nella misura in cui l’esperienza del mondo che abbiamo sembra di tipo “relazionale”, perfino in quei campi della scienza che si fondano sul metodo matematico.
Comunque si valuti una simile posizione, che in fondo è molto più antica di quel che pensiamo, certo è che ci dovrebbe rasserenare: perdiamo qualche vecchia certezza, in favore di un campo di ricerca e di esercizio del pensiero molto più vasto.
Allora – mi chiedo – dove sono veramente gli spazi fisici per la condivisione di un pensiero liberato? Sul web? Sui social? Nelle scuole? Nelle famiglie? Nelle università? Al bar? Negli incontri più o meno online degli “amici”? Nelle dispute saccenti piene di sciocchezze? Tra i soloni che enunciano e scrivono il loro pensiero come se fosse oro faticosamente purificato dall’intelligenza personale? È una colpa l’ignoranza?
Ecco, io credo che abbiamo bisogno di spazi d’incontro aperti, dove le persone possano scambiare idee l’una davanti all’altra in carne ed ossa, dove le persone possano esercitare il loro pensiero, che sia liberato o meno, dove il vitale contraddittorio si sviluppi nel faccia a faccia pubblico, dove ciascuno sia libero di porre domande e ottenere risposte al fine di farsi un’idea propria, senza telecamere, e magari senza giornalisti.
Il pensiero e la cosiddetta intelligenza condivisa sono senz’altro rappresentazione, ma non teatrale e non a pagamento; il pensiero e il dialogo non sono merce. Merce può diventare solo quella prestazione intellettuale finalizzata al profitto di chi la richiede. Allora sì che ha un costo! Ma la qualità? Sarà anch’essa relazionale…o la dobbiamo considerare polo opposto alla quantità e approfondire magari l’idea di cosa sia una relazione e tra chi e chi o tra chi e che cosa o ancora tra che cosa e che cosa?
Sono tutte relazioni tra oggetti esterni e interni della grande rappresentazione che guardiamo ogni giorno appena apriamo gli occhi, spesso senza vedere il sottile e multiforme filo di verità che le attraversa su più livelli.